20 Dicembre 2022 – LE ALI SPEZZATE DI SREBRENICA. MEMORIE DI UN GENOCIDIO

“Dobbiamo accettare quello che siamo”. Inizia così la testimonianza di Ado Hasanovic che questa mattina ha incontrato gli studenti delle classi quinte del nostro Istituto.

E’ una frase apparentemente banale, ma bisogna calarla nel contesto del racconto che segue per comprendere il senso e il peso che le sue parole acquistano nel corso della narrazione.

Ado aveva 6 anni quando è scoppiata la guerra in Bosnia, 7 quando è scappato da Srebrenica verso Tuzla. Aveva 9 anni in quei giorni tra l’11 e il 14 luglio del 1995 quando è accaduto il genocidio di Srebrenica, quello che Emir Suljagic ha definito “uno dei peggiori tradimenti del genere umano”.

Nel corso della sua vita Ado ha dovuto accettare di essere quello che è, ha dovuto sentire su di sé il peso della guerra vissuta da bambino, dei parenti che, a differenza sua, non sono sopravvissuti, del nonno che per andare a cercare un pezzo di pane per i nipoti non è riuscito a scappare con loro e a salvarsi la vita. Il peso dei tanti corpi sepolti sotto una lapide e di quelli ancora senza un nome.

Il suo racconto è denso, incessante. Un ricordo dietro l’altro, dall’inizio della guerra nel maggio del 1992 fino all’apice dell’orrore, per il quale ha compreso l’importanza di essere testimone.

La sua testimonianza passa anche attraverso l’arte, la sua “terapia” che, come lui stesso dice, lo “ha curato dai traumi della guerra”. Le ali spezzate dell’Angelo di Srebrenica sono infatti il suo primo tributo alla memoria: questo suo primo lavoro in poche immagini senza testo trasmette il messaggio di un’innocenza perduta, che probabilmente la gente di Srebrenica sta ancora cercando.

Ado racconta dei primi mesi da profugo, senza una casa, senza un’identità, quando dice “non avevamo paura delle granate, ma di morire di fame”. E il dramma di una guerra che chi non ha vissuto non riesce a immaginare, ma che, nel silenzio dell’aula, emerge dalle sue parole.

Quando, con sua madre e i suoi fratelli, riesce a partire da Srebrenica, il padre deve restare, come migliaia di altri uomini,  ma riesce a nascondersi. Diventerà anche il papà testimone di un massacro, che racconterà nei suoi diari. Attraverso questi diari Ado è riuscito a fare un percorso interiore di ricostruzione della sua memoria e del suo vissuto. Il padre gli ha passato questo testimone, insieme alla passione per l’arte cinematografica, che Ado ha imparato a utilizzare anche per trasmettere, oltre la sua, la memoria delle donne di Srebrenica, come la testimonianza di Hatidža che da madre ha perso i propri figli ed è divenuta Presidente dell’Associazione Madri di Srebrenica.

Al termine dell’incontro, un’ultima domanda: “E’ possibile il perdono?”.

La sincerità e l’autenticità di Ado si presentano in tutta la loro pienezza. “Io non posso perdonare”. Ci si sarebbe aspettati una risposta piena di retorica, sull’importanza del perdono per la costruzione della pace, ma non è quella che ci restituisce Ado e spiega con estrema decisione: “Come si fa a perdonare qualcuno che, avendoti ferito profondamente, non riconosce la sua colpa e non ti chiede scusa?”

Con queste parole si conclude il suo racconto, per il quale il tempo sembra essere stato troppo poco. Tante potevano ancora essere le domande da rivolgere ad Ado. Perché se è vero che perdonare è difficile, credo sia anche necessario comprendere che a commettere i crimini non sono i popoli ma le singole persone. Se non si comprende questo particolare, diventa difficile eliminare gli odi e porre le basi per la costruzione di un dialogo di pace, come quello che potrebbe cominciare con la frase pronunciata da Ado durante il suo racconto “Io sono jugoslavo!”.

Paola Sesti



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