Incontro con Giuseppe Antoci

Montecchio Emilia, 3 febbraio 2023

Nei discorsi che riguardano la lotta contro la mafia si sente spesso utilizzare il termine “eroi”, naturalmente per descrivere persone che non hanno abbassato la testa di fronte ai soprusi di chi
sfrutta il più debole. Giuseppe Antoci però non è un eroe o perlomeno non vuole essere indicato come tale. “Non c’è bisogno di eroismo, serve solo riportare la normalità e la legalità”, afferma
Antoci. Anche chi compie gesti apparentemente straordinari è un uomo, come tutti noi.
Questa affermazione, dettata da un grande senso del dovere, sembra quasi stonare in una scuola, in questo caso l’Istituto “Silvio D’Arzo”, pattugliata da agenti di polizia, artificieri, unità cinofile che fanno da scorta a Giuseppe Antoci, ma la sua storia non può che dargli ragione.
Nato a Santo Stefano di Camastra, nel messinese, Giuseppe Antoci era un uomo con una vita normale, lavoro, moglie e figlie, fino a quando nell’ottobre 2013 è diventato presidente del Parco dei Nebrodi, importante riserva naturalistica siciliana.

Viene subito avvisato da diversi collaboratori della probabile infiltrazione mafiosa nel territorio e decide di indagare. La scoperta è sconcertante: gli appalti per i terreni agricoli erano di fatto truccati, ad ognuno di essi partecipava una sola società, i cui soci erano noti mafiosi, motivo per cui nessun altro osava mettersi in gioco. Chi, raramente, provava ad opporsi riceveva minacce. Antoci non ci sta e decide di opporsi alla mafia con lo strumento più potente che ci sia, la legge.
Redige un protocollo che prende il suo nome, il cui principio è semplice: per ogni appalto per l’assegnazione di terreni sui quali vengono attribuiti fondi europei, indipendentemente dal valore
dell’appalto stesso, è obbligatorio che la società vincitrice presenti la certificazione antimafia, assegnata dalla Procura alle imprese che dimostrano di non avere membri collusi con associazioni
di stampo mafioso. Fino a quel momento il limite imposto dalla legge era di 150.000 euro, la mafia riusciva quindi a vincere tutte le gare, mantenendo bassa la quota e presentando solamente, come prevedeva la legge in vigore in quel momento, un’autocertificazione sulla legalità della società vincitrice.
Il “protocollo Antoci” è un successo. Viene immediatamente sottoscritto dai sindaci dei 24 comuni del territorio, successivamente esteso all’intera Sicilia e, nel 2017, viene inserito nella legislazione antimafia, in vigore su tutto il territorio italiano. Sgominare un giro di affari da 3 miliardi di euro in 10 anni porta però dei rischi ed è forse in questa parte che ci si può sentire più vicini ad Antoci: nel 2014 viene messo sotto scorta e quando chiede al Procuratore di Caltanissetta come farà ad avere un rapporto “normale” con le figlie e la moglie, cosa ne sarà della sua vita, riceve come risposta una frase che non dimenticherà più: “All’ordine del giorno non c’è che lei viva con la sua famiglia, ma che lei viva”.
La scorta è stata senza dubbio fondamentale per la sua sicurezza: oltre ad un attentato subito nel 2016 sui monti dei Nebrodi, sventato grazie al coraggioso intervento della scorta ed alla blindatura dell’auto, si aggiungono intercettazioni periodiche in cui viene minacciato di morte, l’ultima a dicembre 2022. Questo fa di lui uno degli uomini più protetti d’Italia, perennemente controllato insieme alla famiglia, giorno e notte.

Sorge spontanea una domanda: come fa a sopportare questa condizione? La chiave sta in una parola: dignità. La ripete spesso, consapevolmente, come se fosse un mantra. Va restituita dignità allo Stato, al popolo. Non era dignitoso che una meraviglia della natura fosse soggiogata da vigliacchi, così li chiama, che tenevano sotto scacco gente innocente. Se non fosse intervenuto per
fermare quanto era in atto, dove sarebbe stata la sua dignità di uomo? Con che coraggio avrebbe potuto guardare negli occhi le proprie figlie e parlare loro di legalità, rettitudine?
Antoci si pone queste domande ed è nei fatti che trova le risposte. Insiste, si rivolge alla platea di studenti e ricorda che se da un lato ci sono le mafie e dall’altro la legalità, stare nel silenzio che c’è nel mezzo è sinonimo di connivenza. I criminali vivono in mezzo alla brava gente e quando arriva la legge è tardi. Bisogna avere il coraggio di combattere, denunciare, “la vita va vissuta ridando valore alla parola dignità.”
Le sue parole trovano una conclusione quando chiama tutti gli studenti a considerare l’idea del “Noi”, l’insieme di cittadini, giovani e adulti, che ogni giorno svolgono semplicemente il loro dovere senza piegarsi. “Insieme si è più forti” e davanti a questa frase la tensione nell’aria si allenta quasi a rincuorarci e a ridare forza ad una lotta che deve essere combattuta da tutti, giorno dopo giorno.

M. Simonazzi 4^B Liceo



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